Le storie, quelle piccole, minute, intridono la quotidianità o abbracciano i singoli individui per il dolore che le loro storie hanno causato oppure per le piccole questioni che hanno regalato un sorriso, mentre tutto sembrava polverizzarsi dinanzi al Moloch dei portatori di morte. In questi casi credo sia legittimo chiedersi chi sono i responsabili?

Le storie che sembrano non apportare importanti mutazioni alla grande Storia spesso sono frugali, sobrie anche nel presentarsi alla piccola narrazione tra pochi astanti, ebbene sono timide perfino come scolari dinanzi all’imponente Scienza dell’insegnante.

Eppure anche nel sottrarsi dal far spettacolo di se stesse, le piccole storie persistono nel loro scabro porsi all’interlocutore; raccontano degli individui e non di masse, non apportano incomodi plotoni o grandi condottieri al loro sviluppo narrativo.
Le piccole storie hanno sempre una vicinanza con i reali sentimenti degli individui, forse nascono da essi: sentimenti che hanno articolato le trame psicologiche, sentimenti che hanno sostenuto – interpretandolo – il valore della vita che i protagonisti possedevano, sentimenti che hanno accolto le prospettive agognate, sentimenti che affondano nei ricordi il senso dell’esistenza. Sentimenti che spesso hanno trovato la giusta via al cuore dell’altro.

Le piccole storie parlano di quella umanità che ha inseguito, e ancora insegue, le ragioni del sé, condannando l’approssimazione dilettantesca dei molti in attesa d’ottenere il proprio tornaconto. L’alterigia, lo snobismo e la mancanza di dialettica di coloro che si ‘candidano’ a fare la grande Storia si ripercuote sugli equilibri interni ai territori e divide inevitabilmente le piccole dalle grandi storie.

Forse la sola condizione da porre all’attenzione della maggioranza degli elettori ricalca la contraddizione perenne che non viene mai affrontata: il rapporto difficile fra masse e potere.

Il Coronavirus rappresenta una delimitazione dei confini tra diverse e distinte comunità. Bisogna che ci si renda conto delle complesse identità che concorrono a definire gli scompaginati insiemi che compongono la struttura socio-politica.

Una collettività, o meglio una comunità coesa territorialmente (potremmo definirle di prossimità, di contiguità), è tale solo se con-divide la medesima tensione esistenziale, che costruisce insieme il proprio scenario e che, quindi, elabora il proprio immaginario. Una comunità che sia in grado di individuare alcuni elementi appartenenti alle dinamiche socio-politiche e riconosce come organiche al farsi della propria identità alcune ritualità antropologiche. Non solo. C’è, infatti, un altro aspetto che, in tempi di Coronavirus, è stato totalmente ceduto alla propria classe dirigente: la gestione funzionale e quella amministrativa – con importanti ricadute sul piano economico e sugli aspetti politici – dei territori. Certo non sarebbe stato auspicabile mettere in piedi organismi pluriassembleari con articolate commissioni, sottocommissioni e affini. È stato utile convocare al gravoso compito della gestione della crisi quegli uomini in quanto appartenenti alle istituzioni e non in quanto creature dell’apparato politico.

Contiamo (dobbiamo poter contare) sul rigore morale e sull’alto senso di responsabilità degli amministratori locali e centrali per configurare le soluzioni ai problemi logistici e, soprattutto, sull’individuazione delle regole di una convivenza tra nuclei familiari separati nel medesimo ambiente.

Siamo intrappolati dentro macchine urbane che reputiamo non all’altezza dei problemi posti dalla pandemia attuale: siamo sul pianeta un insieme di popoli attoniti, disperati e transfughi (India) che percepiscono il ‘male’ che avanza e che cresce sulla pelle di ciascuno, invade le nostre coscienze e devasta le nostre emotività; di fronte abbiamo l’impalpabilità dell’avversario. Le cento, mille, domande che vorremmo porgere agli specialisti, ai competenti e ai sapienti, di cui oggi abbiamo bisogno assolutamente, restano spesso sulle nostre labbra e che, a causa della tracimazione degli individualismi vanesi e ampollosi attuata sui cosiddetti social, vanificano le buone intenzioni.

A fronte della moltitudine dei “perché”, posti e restati per giunta non profferiti – e che non troveranno accoglimento alcuno – vi sono in giro false notizie, false considerazioni e spiccioli confusi di discipline scientifiche improbabili. Proprio sui social, le fake news impazzano propalate da buontemponi – nel migliore dei casi – oppure sono sostenute da persone senza alcuna nozione di biologia, di chimica, di fisiologia, di pneumologia e di altro ancora.

La convergenza delle conoscenze è l’unica chance per superare l’attuale crisi. Restano le storie che chiedono chiarezza e informazioni e che oggi pongono quesiti ai competenti come quello di indicare regole per le condizioni dell’emergenza sanitaria. Infatti, lo stiamo comprendendo bene di questi tempi, è l’unità delle diverse discipline che indicherà la via del vaccino o delle difese medicali. Al contempo questa crisi sta sancendo la necessità di una sinergica attività delle conoscenze, imponendo con vivacità la necessità di una cooperazione delle competenze professionali; si sta indicando anche l’abbattimento dell’alterigia che sembra condizionare la condivisione dei saperi.

Le piccole storie pretendono, ma quasi a bassa voce, la disponibilità degli scienziati e un’attenzione che non sia paternalistica ma quasi didascalica: spiegare il mondo, cercare di spiegarlo e mettere a disposizione dei molti la risposta elaborata dai pochi.

Così un popolo si responsabilizza, impara a collocare la propria identità nel flusso degli eventi, inanellando piccole storie con piccole storie, per poter raccontare, infine, anche le grandi Storie.

Gaetano Cantone
(Per spunti e riflessioni dei lettori archcantone@libero.it)