Abbiamo affrontato fin qui nella rubrica Cronache dalla Quarantena, nata per tentare una lettura di alcuni temi scaturiti dalla crisi causata dal Coronavirus, diverse questioni: a) comprendere la relazione identitaria degli individui nella nostra epoca e riflettere sui modelli antropologici che suffragano oggi la condizione umana, b) l’impossibile paragone, da ritenersi retorico, quale formula dell’interpretazione dell’attualità con i periodi canonici di guerra e dopoguerra, c) il modo con cui le piccole e grandi storie si incontrano nel definire lo scenario, d) il lavoro, vera tragedia del XX secolo, che resta condizionante la formazione dell’immaginario individuale, e) la relazione con l’altro “assente” nella città che diviene lo scenario soltanto virtuale delle nostre vite, f) i luoghi storicamente determinati ed i “nuovi” con cui confrontare la reclusione necessaria, g) riflessione sul modello politico ed economico di tipo capitalistico che dopo circa dieci generazioni è ancora vigente e, nonostante che ogni tanto venga dichiarato moribondo, molto attivo nella “nuova” Asia.
Il trattamento di un tema non coglie necessariamente l’eventuale importanza o l’interesse veicolato; nel caso della pandemia da Coronavirus sembra che si siano accumulate tutte le tensioni, anche ideologiche, stratificatesi già da almeno un ventennio. La soluzione non è, infatti, nelle pleonastiche dichiarazioni virtuose (politicamente corrette) ma nella capacità, visto che parliamo di ipotesi o di probabili scenari, di connettere tra loro – visto che non possiamo farne a meno – segmenti della realtà fattuale commisti a valutazioni, in corso d’opera, socio-antropologiche quindi culturali.

Alcuni temi sono, gioco forza, interrelati, pongono dubbi e sollecitano quesiti alla nostra interrogazione dei fatti: la lettura sarà in connessione agli scenari ipotizzabili ponendo sotto osservazione quei frammenti d’inquietudine che abbiamo ricevuto in sorte dalla crisi in atto. Per tali motivi è vitale un’ampia riflessione critica, come lo fu nella scellerata “vicenda” Lehman&Brothers che, sottendendo un’arrogante pianificazione delle proprie attività finanziarie, ha rivelato l’identità rapinosa e cinica degli apparati del business.

Nel 1785 il dollaro fu adottato come valuta unitaria degli Stati Uniti d’America. Da allora a tutt’oggi, sono trascorsi 235 anni equivalenti circa a dieci generazioni (ipotizzando una media tra i 22 ed i 25 anni per ciascuna generazione) di uomini e di donne che hanno combattuto la propria battaglia contro i nefasti andamenti della vita.

Dieci generazioni che hanno visto il vario declinarsi del capitalismo attraverso ben tre cosiddette “rivoluzioni industriali”: viene legittimo domandarsi come mai tra tutti i sistemi di gestione politico-economico quello capitalistico – tra alterne vicende – sia ancora il sistema che domina su un mondo trasformatosi sempre più velocemente. Ipotesi. Il cinismo dei pochi esponenti di alto livello (i cosiddetti manager della “stanza dei bottoni”) delle molteplici attività economiche planetarie ha fatto sì che “l’esperimento” della pandemia rappresenti il termine-obiettivo di un processo di accumulazione paleocapitalistica delle risorse. Di tutte le risorse materiali e umane, s‘intende.

Non è un caso che quantità imponenti di popolazioni povere sono tracimate verso quelle nazioni ritenute affluenti e detentrici di un benessere gratificante. Tale processo d’altronde è tuttora in ordine di definizione; si può dire che sia figlio legittimo delle ‘rivoluzioni industriali’ composte dalle generazioni che l’hanno preceduto. Qui, ora, è in gioco la pura finanziarizzazione dell’economia. I capitali robusti dei figli e dei nipoti di Mao rappresentano molto più di una minaccia rovesciata sulle borse e sui mercati finanziari: s’impongono nel ruolo per un mancato controllo di tutte le dinamiche di reddito da investimento e da profitto, avendo sopravvalutato le proprie capacità gestionali a causa di una sbornia di onnipotenza. Il potere ha di queste perversioni quando valuta il mondo dei molti come effetto collaterale.

Esserci in tali processi è divenuto, quindi, sempre più importante, ma questo che viviamo è un tempo sempre più asfittico in cui i giochi sembra che siano fatti. Non è un caso che gli americani hanno votato un imprenditore come Trump, uomo che predilige l’assenza di memoria degli eventi storicamente individuati e desideroso sommamente di non aver contezza dei processi sociali e culturali.

Questa fase del capitalismo (definito in vari modi: turbo, post, iper…) non riesce a delineare uno scenario politico ed economico che sia plausibile, coerente e risolutivo delle conflittualità che definiscono e delimitano il contesto operativo. Viene da pensare che la banalità dell’attuale condizione consista nella progressiva perdita delle competenze, in ogni ceto sociale e in ogni ruolo. Fuori dal sistema, suffragato artatamente dai media compiacenti e proni, regna la tragedia delle vite nell’intero pianeta.

Le forze in campo sono impari, soprattutto perché negli ultimi quaranta anni s’è persa traccia di una cultura critica nei confronti dei modelli antropologici e dei contenuti culturali
sottesi. Competenze che mancando rendono un cattivo servigio alla causa dell’ipercontrollo capitalistico dell’universo.

Abbiamo più volte sostenuto, in varie forme e in numerose occasioni, il ruolo determinante avuto dalla scena urbana sulle ipotesi produttive: è la città un luogo (fisico) in cui si concentrano gli sforzi produttivi dell’apparato industriale nel suo complesso (inanellando i settori primario, secondario e terziario per quanto questo ultimo sia ‘disavanzato’). A dimostrazione di questa tesi: una città come New York rappresenta il centro nevralgico dell’intera economia degli Usa e da qui a considerarne il ruolo preminente nel pianeta Terra dell’apparato politico, economico e militare degli Stati Uniti il passo è breve. È la città-metropoli, intesa qui come principale tipologia e icona (unica) delle connessioni umane, che subisce il primo impatto delle trasformazioni che si avvantaggiano anche delle risorse tecnologiche innovative, spesso in obsolescenza programmata ed impegnate anche per celebrare la mitologia della mutazione produttiva.

Nelle disperanti condizioni attuali servono sperimentazioni in molte discipline, dalla chimica alla sociologia, per risolvere la pandemia che al momento favorisce la distruzione della socialità, che altrimenti rischia di restare sullo sfondo di vite separate e vilipese. Vuol dire dover riprendere daccapo il filo rosso delle umane relazioni senza illusioni ma anche senza ipocrisie. Gli esseri umani dimenticano facilmente e come in una sorta di ricerca dell’oblio punteranno a ricomporre le conflittualità per tornare nell’alveo della normalità.

Gaetano Cantone
(Per spunti e riflessioni dei lettori archcantone@libero.it)