Perlustreremo nei prossimi tempi la distanza intercorsa tra il singolo e tutti gli altri diventati (o ridotti a essere) solo un fondale, un orizzonte piatto e iterativo di giornate, di settimane o di mesi; e anche complici d’una rinnovata scena di interni, utilizzando, tra l’altro, da protagonisti le iconografie cinematografiche o teatrali dell’Ottocento e del Novecento. Stiamo sperimentando e praticando convivenze che recano aliquote di meraviglia incomprensibili: tra le prime vi sono quelle familiari che sembrano rappresentare una novità rispetto alle modalità che una volta, invece, erano consuete nella vita quotidiana delle famiglie.

È davvero singolare dover pensare allo stare insieme (cioè, fare comunità, la qual cosa dovrebbe risultare dotazione ‘naturale’ dello spirito familiare) come a una sorta di prova delle interrelazioni tra consanguinei. Forse, la disabitudine alla condivisione ci sorprende: di un padre o di una madre si può non possederne il gergo espressivo, dei figli si può non comprendere i linguaggi lasciando ai margini della conoscenza anche il loro immaginario, che resta comunque la chiave d’accesso alle loro identità.

La prima pertinenza familiare insiste sul con-dividere, nello spirito d’avere in comune con genitori o figli luoghi (quale la casa, ove si tornava dal lavoro, dalla scuola, dai viaggi, quindi il luogo da dove si va e dove poi si ritorna), oggetti (il tavolo della cucina ha rappresentato l’icona italiana del ritrovarsi dell’intera famiglia) o linguaggi (soprattutto il gergo, ad esempio, che appartiene a quella determinata famiglia e non ad altre). Numerosi sono stati però i luoghi evocati anche in questa crisi dovuta al Coronavirus: i conventi, i cenobi, le prigioni e altri ancora. Luoghi, insomma, destinati a prevenire e a combattere l’insorgenza del virus nei suoi funerei obiettivi sono oggi le nostre abitazioni – piccole o grandi – che assumono il ruolo, non eccelso, di spazi della reclusione che, anche in questo frangente, non eletti per scelta ma perché come collettività ci siamo muniti di regole tra cui primeggia quella amara della non frequentazione, della non condivisione, dell’assenza dell’altro per metterci a riparo dalla contaminazione, cercando la distanza da tenere per evitare l’eventuale contagio.

Sono molte le riflessioni che inducono a paragonare la nostra assenza dalle relazioni interpersonali a quei luoghi storicamente determinati per relegare i nostri simili ponendo nelle carceri, nelle prigioni, negli stabilimenti penitenziari, nelle galere o nei reclusori coloro che commettevano reati, rinchiudendoli lontano da noi, auspicando pure che la galera li avrebbe indotti a migliorarsi. Poi la reclusione ha avuto nella storia umana altre facce soprattutto legate alle scelte di individui che hanno privilegiato la meditazione, la contemplazione o la preghiera realizzando o ritirandosi in conventi, in monasteri, su per gli eremi, nei cenobi, nelle abbazie o nei chiostri e nelle badie: tali scelte hanno ricercato o costruito spazi sufficientemente individualizzati ma in grado di ospitare piccole o grandi comunità di monaci, suore, religiosi oppure bonzi. Sono queste figure che hanno raccolto, nel vitale tempo della storia, rispetto e attenzione da parte di coloro che non perseguivano una vita di meditazione e di preghiera.

Alcuni di questi conventi erano cosiddetti “di clausura” dove, non necessariamente, i religiosi v’erano convenuti in maniera coatta: lì, nella separatezza dal mondano, nella cura della propria interiorità, fuori dalle tentazioni o dai pericoli della società, si concretizzavano le aspirazioni di ascesi o di totale immersione in quello che è stato definito l’incanto di Dio. Il modello conventuale non viene certamente qui proposto come risolutore delle nostre conflittualità, data la complessità relazionale della società contemporanea, per tutti coloro anche si trovano in quarantena contro il dilagante Coronavirus; si potrebbe però auspicare una rivalutazione del significato che esso ha avuto storicamente, approfittare dell’autorevolezza che potrebbe ancora veicolare. L’improbabile paragone con i cenacoli familiari di oggi lascia aperto, però, un varco alla rigenerazione della vita familiare consumistica per mezzo della necessaria via di una “frugalità” condivisa sebbene mai sollecitata dalle figure genitoriali nei confronti dei figli; frugalità che le regole monastiche hanno, almeno teoricamente, auspicato, indicandola come strada virtuosa per l’emancipazione materiale e morale degli individui. Dalle diverse esperienze che incidono sulle nostre valutazioni circa gli scenari esistenziali, potrebbero tornare utili alcuni spunti, per l’appunto, sul tema della frugalità mettendo sotto stretta osservazione quel modello “consumistico” tanto citato ma che va comunque messo in crisi quale unico modello esistenziale planetario, sostenendo anche la messa in discussione di un’omologazione culturale e antropologica cui siamo purtroppo adusi da tempo, come anestetizzati.
L’abbandono di modelli obnubilanti necessita del rifiuto della permanenza nello stadio di soggezione culturale (e psicologica) dinanzi alla poderosa strategia comunicativa consumistica; improrogabilmente vanno discussi proprio per l’importanza del ruolo che oggi tali modelli hanno assunto per la nostra vita associata, divenendo dominanti ed esclusivi, intolleranti ed arroganti, indifferenti ai reali bisogni delle persone.

Qualche anno fa un’imbarcazione solcava caracollante le acque del Mediterraneo. Stracolma di “pellegrini” e di improvvisati nauti, l’improbabile nave attraccò in un porto italiano proveniente dall’Albania; i suoi passeggeri avevano trovato finalmente il luogo dove i sogni promessi dalla promozione pubblicitaria si concretizzavano. Sulle italiche sponde pensavano d’aver trovato lo stato di grazia: pochi si ricredettero, altri optarono per un’adozione acritica del modello propugnato, entrando nel grande, onnicomprensivo, planetario blocco sociale che compone oggi la popolazione del pianeta. Nei supermercati controllare sempre la data di scadenza dei prodotti, soprattutto quando vige l’offerta “prendi tre e paghi due”, facendo un distinguo tra quantità e qualità, vista la compravendita in atto delle coscienze, già ipotizzata nei nuovi Piani Marshall dei dominatori.

Gaetano Cantone
(Per spunti e riflessioni dei lettori archcantone@libero.it)