Ricorderemo, sì la ricorderemo per anni e la narreremo anche, a meno di una rimozione collettiva imponente e insospettabile, la nebulizzazione psicologica che il Coronavirus avrà comportato.

L’impalpabilità dell’infezione (il nemico non si manifesta se non al microscopio) la solitudine metafisica (paragonabile alla sospensione allucinata delle “piazze d’Italia” di De Chirico) in cui siamo confinati, e a volte respinti, determinerà – tra qualche tempo – una messa in crisi delle nostre relazioni, anche amicali.

Ci stiamo allenando a cogliere l’assenza dell’altro: ci resta nella prassi quotidiana la sua “presenza” virtuale, a telefono o in video chat su cui tracimiamo il nostro improbabile e indefettibile protagonismo; oppure sui social in cui accumuliamo anche i silenzi. Si sono allungati perfino i tempi dei contatti: come a dire sono solo dinanzi ai silenzi, protraggo quindi nel tempo (che scorre troppo “lentamente”) e mi fa incedere nel territorio infido della pigrizia relazionale. Si stiracchiano le comunicazioni sebbene noi si sappia che il colloquio reca in sé l’angosciosa condizione del distacco.

Si pensa: bisogna evadere da tale servomeccanismo; bisogna tagliare i lacci che ci tengono “prigionieri”, rinverdendo la nostalgia della separazione. Era già accaduto con i flussi migratori a cavallo tra ‘800 e ‘900. Accade la medesima cosa per quelli odierni che hanno lasciato un contributo notevole nelle acque di un Mediterraneo bollente politicamente e non meno economicamente. L’assenza dell’altro è come una barriera inibente; meglio, è come un confine ostico, duro, invalicabile e inespugnabile che si protrarrà forse più a lungo di quanto si pensi. Un confine dentro la città contemporanea anch’essa non più partecipe – se non come “contenitore” delle nostre ansie – della nostra vita.

L’effetto nostalgia si verifica dinanzi alla memoria degli spazi urbani, di quando risultavano pullulanti di persone intente al proprio lavoro, ai loro coinvolgimenti ludici o di shopping, presi intensamente dai propri incanti. Sale alla nostra memoria il ricordo-racconto di una città in movimento (ovvero “la città che sale” di Boccioni) costante, un movimento quasi nevrotico, ma ben conscio che per secoli all’uomo agricolo-pastorale la città era apparsa il luogo incantato des merveilles; se rapportate alle megalopoli contemporanee queste “meraviglie” sembrano scomparse, come inghiottite nel gorgo che tutto cancella e tutto corrode, soprattutto, che tutto dimentica. L’incessante andirivieni (termine che avrebbe utilizzato un notista di qualche tempo fa), il vivace scambio di notizie e merci, le comunicazioni che attraversano le sempre più numerose strade, tutto ciò denota l’artificialità degli spazi urbani, degli spazi collettivi ed anche di quelli di pertinenza individuale. Il nostro immaginario è articolato in tale direzione tramite il linguaggio delle icone-città.

C’era stato, una volta, il ruolo condizionante di alcuni professionisti che avevano in cura i malanni delle città; costoro, muniti di speranze egoiche e di linguaggi solipsistici, avevano preconizzato le erigende città del futuro ma a patto che funzionassero come macchine, consapevoli che cento anni fa s’era già nella civilitation machiniste, che non ci ha abbandonato ancora. Il limite di questa visione è chiaro, fino allo sfinimento ed entra come una testuggine robusta nelle ipotesi delle trasformazioni urbane, portandosi appresso un modello organizzativo simile a quelli di cento anni fa e più. La forzata separazione dalla socialità comporta una convivialità che oggi si riduce a virtualità e in ciò snatura anche le relazioni e le ritualità urbane. Come in un luogo dechirichiano, osserviamo uomini silenti e spazi colti in una stasi contraddittoria: da una parte l’universo di chi guarda non avrebbe motivo d’esistere, infatti, i nonluoghi (Marc Augé) sono caratterizzati anch’essi dall’assenza; dall’altra parte le relazioni umane per difendere la vita assumono, oggi, l’assenza dell’altro come parametro, conducendo un’esistenza incerta nell’oceano magmatico in cui siamo incappati. Sì! Perché, la tragedia c’è caduta addosso! Chiediamoci perché alcune previsioni o ipotesi non sono state fatte? Perché i segnali raccolti non hanno portato ad una diagnosi non “ideologica”? Nelle città. Crollano solo i ponti? Tracollano solo gli edifici? Rovinano a terra solo le nuove costruzioni? Certo! Questo accade per l’incuria e per le facilonerie coinvolte nel controllo dei territori.

Ritengo che un territorio che metta in dispregio la propria identità dispone all’oblio anche la memoria, non solo morfologica e tipologica, di se stesso e soprattutto manda in malora l’idea corale della città che della memoria di se stessa nutre il proprio futuro.
Scriveva Italo Calvino ne Le città invisibili che non ci si può porre il dilemma di classificare le città in felici od infelici: “…non è in queste due specie che ha senso dividere le città, ma in altre due: quelle che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati” [pp. 41-42]. Mi chiedo se nella situazione attuale il pianeta rischi davvero, per affrontare un duro ed incombente presente, di eludere la domanda che l’articolata compagine dei territori e delle città si pone ed affronta non soltanto nei declamati “dopoguerra”: saremo in grado di scegliere le sopravvivenze (artistiche, architettoniche, ed ambientali) che ci consentiranno di identificare la memoria delle città? Sapremo far distinzioni tra gli esecrabili manufatti consegnatici dall’oscuro professionismo speculativo del secolo scorso e le opere la cui qualità ha come sempre tracce storiche del rapporto tra memoria e mutazione?
Invece, Coronavirus non ha fatto distinzioni, non è così aristocratico; forse è il virus di un liberismo anarcoide e baldanzoso nonché efficientista. Fa morti alla stregua d’una mattanza selvaggia. È accaduto già che le multinazionali della farmaceutica non abbiano finanziato ricerche a bassa redditività, sebbene di forte impatto per le popolazioni; posizione imprenditoriale che, per statuto capitalistico, abbisogna di numeri imponenti in assenza di un business votato a farmaci d’alto costo. Come quando si è puntato sull’ambiente immolandolo sull’altare del profitto ad ogni costo. Il virus è un nemico a suo modo potente e tale da mettere in discussione le nostre credenze: si può pensare davvero che nel “dopo” pandemia tutto torni come prima? Basti pensare alle relazioni umane, alla distanza fisica che dovremo tenere tra noi, avremo lo sguardo corrucciato, preoccupato e diffidente, nonché carico della tensione che s’è accumulata. La distanza tra noi, in particolare, bisognerà tenerla come prescritto dalle regole contro il Coronavirus, come era anche indicato nei “manuali di galateo” piccolo-borghesi d’un’era fa, arcaica e rallentata.

Gaetano Cantone
(Per spunti e riflessioni dei lettori archcantone@libero.it)