Sanità: fogne serbatoio di superbatteri, da curcuma e rabarbaro possibile arma

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Milano, 11 lug. (Adnkronos Salute) – Nella curcuma e nel rabarbaro potrebbero nascondersi armi preziose per combattere i superbatteri che si nascondono nelle acque reflue. Un problema non da poco: gli scienziati che monitorano il microcosmo che abita gli scarichi hanno infatti scoperto nelle acque di un impianto di trattamento dei microrganismi multiresistenti che, pur non essendo solitamente pericolosi per le persone sane, potrebbero trasmettere i geni della resistenza agli antibiotici a batteri molto più pericolosi come l’Escherichia coli. Ma i composti naturali identificati potrebbero rappresentare una soluzione ‘green’ promettente. E’ quanto emerge da uno studio pubblicato su ‘Frontiers in Microbiology’.
Quando assumiamo antibiotici – spiegano gli esperti – una parte della dose viene escreta e finisce nelle fogne. La presenza di questa bassa dose di antibiotico crea un’opportunità per l’evoluzione di batteri resistenti. Dopo aver identificato dei ‘superbug’ nelle acque reflue, gli scienziati hanno poi testato sui batteri alcuni composti potenzialmente utili nel trattamento delle acque reflue per eliminarli e combattere la resistenza agli antibiotici. I più efficaci sono risultati la curcumina ricavata dalla curcuma e l’emodina ricavata dal rabarbaro. “Senza un trattamento migliorato, le acque reflue potrebbero fungere da terreno fertile per superbatteri che potrebbero entrare in risorse idriche come fiumi, laghi e bacini idrici, rappresentando potenziali rischi per la salute pubblica”, avverte l’autrice senior Liyuan ‘Joanna’ Hou della Utah State University. “Il nostro obiettivo – riferisce – era isolare e caratterizzare i batteri multifarmaco-resistenti, esplorare i meccanismi molecolari della resistenza attraverso il sequenziamento dell’intero genoma e valutare il potenziale dei composti naturali come strategie alternative di mitigazione”.
Come nasce un superbug? La resistenza agli antibiotici si sviluppa quando i batteri si evolvono per essere meno vulnerabili a questi farmaci ed è più probabile che ciò accada se vengono esposti a una dose troppo bassa per ucciderli tutti. I sopravvissuti, così, affinano l’arma della resistenza. E chi è infetto da questi batteri resistenti potrebbe dunque scoprire che il trattamento che sta facendo non funziona, il che rende potenzialmente molto più pericolosi interventi chirurgici di routine o malattie.
Alcuni patogeni, poi, preoccupano particolarmente: sono quelli resistenti a più antibiotici, In questi casi si ricorre alla cosiddetta ‘ultima spiaggia’: le infezioni vengono trattate con farmaci di ultima istanza, come la colistina. Tuttavia, quando Hou e colleghi hanno analizzato campioni provenienti da un impianto di trattamento delle acque reflue a Logan, nello Utah, hanno trovato alcune colonie di batteri resistenti persino alla colistina. Per gli scienziati urge dunque trovare modi per prevenire e trattare le infezioni batteriche riducendo al minimo l’uso di antibiotici.
Gli autori del lavoro hanno analizzato i loro campioni utilizzando un unico antibiotico, il sulfametossazolo, per identificare 9 diversi ceppi batterici resistenti i quali sono stati poi testati contro diverse classi di antibiotici per verificarne la resistenza. Anche i genomi sono stati sequenziati, il che ha permesso di identificare non solo i batteri stessi, ma anche i geni che contribuiscono alla loro resistenza agli antibiotici. In particolare un ceppo, U2, che presentava il numero e la varietà più elevati di geni della resistenza, è risultato ‘invulnerabile’ a tutti gli antibiotici testati. Sotto la lente dei ricercatori sono finiti microrganismi di diverse specie: Microbacterium, Chryseobacterium, Lactococcus lactis e Psychrobacter, germi che raramente sono pericolosi per la maggior parte delle persone, ma ciò non significa che la loro presenza non sia motivo di preoccupazione, puntualizzano gli scienziati. “Sebbene non siano tradizionalmente classificati come patogeni clinici di massima priorità, alcuni sono patogeni opportunisti associati a infezioni come la polmonite in immunodepressi”, precisa Hou. “Questi batteri potrebbero anche fungere da serbatoi ambientali, trasferendo geni di resistenza ad altri batteri, inclusi patogeni clinicamente rilevanti”.
Come combattere questo rischio? Nell’ambito dello studio le colonie batteriche sono state esposte a diverse concentrazioni di 11 composti naturali: berberina, clorflavonina, crisina, curcumina, emodina, esperidina, naringina, quercetina, resveratrolo, rutina e il flavonoide 2′-idrossiflavone. Hanno poi analizzato diversi parametri relativi alla salute delle colonie. “Abbiamo selezionato un gruppo di composti derivati ​​principalmente da piante, come la curcumina dalla curcuma, la quercetina da cipolle e mele e l’emodina dal rabarbaro”, racconta Hou. “Questi composti sono stati scelti in base alle loro proprietà antimicrobiche o anti-biofilm segnalate in studi precedenti e alla loro abbondanza naturale, il che li rende candidati promettenti per esplorare nuovi approcci ecocompatibili per mitigare la resistenza”. Da qui si è arrivati ai più efficaci, curcumina ed emodina. Tuttavia, i batteri Gram-negativi come il Chryseobacterium si sono dimostrati resistenti a tutti i composti. Sono ora “necessarie ulteriori ricerche”, conclude Hou. “I lavori futuri dovrebbero includere la sperimentazione di questi composti in matrici complesse di acque reflue, l’esplorazione degli effetti sinergici coi processi di trattamento esistenti e la valutazione degli impatti a lungo termine sulle comunità microbiche e sulle dinamiche di resistenza. Inoltre, il passaggio dagli studi di laboratorio alle sperimentazioni pilota su scala sarà fondamentale per valutare la fattibilità e la sicurezza ambientale”.