La grande Storia comporta la valutazione delle sue guerre combattute, delle sue battaglie che elencano i propri eroi, o l’utile avanzamento del fronte a difesa della patria.
Poniamoci alcune domande.
Perché una guerra è così importante sul piano della memoria di varie generazioni?
Cos’ha una guerra da convincerci della sua fatale ineluttabilità?
La fase Coronavirus sarebbe davvero paragonabile ad una guerra?
Una guerra è la stratificazione delle sofferenze, separa il prima e il dopo di una vita mentre tutto cambia; cambiano le persone, cambia la loro psicologia, perfino le loro abitudini. Non muteranno, poi, alla fine della guerra, i suoi modelli sociali e i suoi obiettivi antropologici e culturali. Proprio dopo la seconda guerra mondiale non mutarono in sostanza l’orizzonte esistenziale, le mire dirette alla scalata sociale e il rapporto opportunistico con il potere.
Non mutarono le richieste che ciascuno poneva alla propria vita: ad esempio, la realizzazione dei propri desideri esistenziali; il cinema è stato – tra tutti gli elementi iconografici, influente sugli immaginari individuali e collettivi. Il cinema, a cavallo della guerra e del dopoguerra, ha rappresentato il vettore di mentalità, cioè di quelle ‘visioni’ che mediavano tra possibilità reali e intime aspirazioni.

Ciascuno, imbrigliato in un evento tanto superiore alle sorti del singolo, comprende che l’orizzonte s’è trasformato. Ciascuno coglie la finitezza propria dentro l’orrore collettivo. Sul piano materiale ogni guerra produce dolore, ogni guerra è la distruzione che diviene norma quotidiana. Chi ha vissuto e ha avuto memoria della seconda guerra, ricordava la comparsa della fascia nera sul braccio, dei bottoni neri e di tutti quegli elementi che denotavano il lutto che aveva colpito l’una o l’altra famiglia: da un giorno all’altro, da settimana in settimana, una lunga teoria di defunti occupava l’orizzonte precario che andava formandosi, soprattutto, per le giovani generazioni. Con il rischio di anestetizzare le reazioni emotive.
La guerra si rimuove anche; appena finita, ogni guerra tende a essere rimossa dalla memoria individuale e da quella collettiva: dopo ogni guerra bisogna progettare i sorrisi del futuro prossimo venturo. Tutte le ragioni probabili che hanno spinto alla guerra s’intrecciano in una ridda d’analisi lucidamente perseguite unitamente a emozioni schiacciate sulla soglia che soltanto il dolore è in grado di porre. Una guerra costruisce, realizza e sancisce la propria identità anche sull’iconografia che le compete.
Basta guardare alla comunicazione di massa dei regimi e delle altre nazioni attuata negli anni trenta e quaranta del Novecento. In questo caso v’era un contenuto politico che riguardava i motivi per i quali la guerra si stava combattendo; vengono poi le possibili “narrazioni” relative al percorso simbolico che la guerra rappresentava come “contenuto” culturale.

Nella seconda guerra mondiale – al di là degli opportunismi dei singoli – la collocazione di ciascuno disegnava un’articolazione non sempre compatta e omogenea.
Il paragone con le condizioni delle guerre si pone ogni volta che si produce una crisi dovuta a difficoltà sanitarie (la spagnola negli anni venti del Novecento) oppure a difficoltà di tipo economico, come accadde nel 1973 a riguardo della scarsità di petrolio: non soddisfacendo la domanda dell’intero sistema produttivo e del modello sociale i cui consumi erano profondamente ancorati alle tecnologie e alle tecniche in uso che abbisognavano di idrocarburi. Ancora una volta i media e le dichiarazioni della classe dirigente hanno posto il paragone per la crisi causata dal Coronavirus a ciò che accadde nella fase di ricostruzione dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Questa crisi, che attraversiamo con panico, impone a tutti noi una constatazione dolorosa e adulta: non siamo pronti dopo la grande stagione (di circa settanta anni) trascorsa nella levità, non siamo preparati ad affrontare la cultura della morte, con tutto quello che comporta. Dopo ogni guerra si pensa di poter tornare a un svolgimento della vita ricomposta su modalità precedenti.

Il Coronavirus coinvolge con la sua terribilità almeno un miliardo di persone e impone la riflessione tipica sulla morte allargata a numeri imponenti. Con una ricaduta su numeri importanti. Questa volta, la morte ci ha separato, chiusi in casa partecipiamo di uno scenario apocalittico: le grandi società postcapitalistiche non sanno (al momento) come affrontare il nemico biologico che si insinua in tutti i meandri e ci rimanda a un solo obiettivo: restare chiusi nella propria abitazione non potendo frequentare altri fuori dal proprio circolo familiare. Si ripropone il tema del nemico invisibile dopo anni di abitudinarie frequentazioni: i livelli di condivisione sono calati, ma non azzerati; le consuetudini amicali ne soffrono, paventando l’altro come “nemico”.
Nella storia italiana tali separazioni appartengono al modello dell’abitare contadino in quanto la frequentazione di altre persone avveniva in occasione dei raccolti o di qualche rara festa comune, riducendo all’osso il problema. Dobbiamo forse prepararci a uno stile di vita non eccessivamente disponibile alla socializzazione. Ciò potrebbe sollecitarci a una migliore interiorizzazione, farci riflettere sulle scelte per un rigoroso confronto relazionale. Coronavirus è il nemico che ci obbliga a ripensare complessivamente alle relazioni.
Nulla tornerà come prima; non dovremo mettere mano, dopo che si sarà esaurita la crisi, alla ricostruzione materiale dei luoghi di vita. Dovremo invece ripensare alla vita associativa e puntare alla qualità delle relazioni umane. Spinti dalla necessità di ripensare alle funzionalità esistenziali, potremo puntare sulla consapevolezza culturale ed antropologica e scovare, tra le molte ipotesi proponibili, quella diretta alla comprensione della complessità dello scenario.

Gaetano Cantone
(Per spunti e riflessioni dei lettori archcantone@libero.it)